I cannoni della costa ionica

cannoni Sono o non sono un artigliere, sia pure in congedo dal 1974? Sì, lo sono, o lo fui. Perciò m’interessa, diciamo così, professionalmente che a Isola Capo Rizzuto sia stato portato in superficie un cannone, pare una colubrina, del XVI secolo. Sembra sia un pezzo veneziano, magari di nave che fece naufragio; e non mi stupisco, perché le flotte veneziane furono spesso presenti lungo le nostre coste, e si narra una pia leggenda per spiegare una Reliquia di san Marco a Cropani.

 Ma non ci servivano cannoni d’importazione, giacché lo Ionio era, in quei secoli, potentemente armato. Dopo l’orrendo saccheggio turco di Otranto del 1480 e la riconquista della città per mano del principe Alfonso, futuro re, e di Nicolò Picardo di Paola, l’amico di san Francesco di Paola (“Cicco e Cola”, dice ancora il popolo), il Regno si dotò di una rete di avvistamento e comunicazione con le torri cavallare, così dette per essere presidiate da soldati a cavallo con il compito di avvertire di un’eventuale incursione; e di fortissimi castelli regi quali proprio quello di Isola, le Castella. Le torri erano di proprietà del Regno, però le gestivano i Comuni, anche in consorzio tra loro: Soverato era associata ad Argusto.

 Fecero il loro dovere anche i castelli feudali, e quelli dei Carafa di Castelvetere (oggi Caulonia) e Roccella respinsero flotte turche con i cannoni. Imprendibile la grande Bagliva di Malta a Monasterace, da cui è derivato l’intero paese.

 Le torri cavallare sono quasi tutte scomparse; ma restano quella di Castelvetere, quella di Riace accanto al castelletto San Fili, quella di Santa Caterina oggi inglobata in casa; e, in qualche modo, la Torre di Galilea a Soverato (“Turrazzu”), e il castello (oggi trasformato in case e locali). Resta anche della toponomastica, come il diffuso Torrazzo.

 Sono ben noti i cognomi Cavallaro, Caporale, Bombardiere… Una riflessione politica e sociale. Questa necessaria e utilissima militarizzazione della costa fu senza dubbio un pesante costo sia finanziario sia umano per il Regno e per le popolazioni. Quando la minaccia turca venne meno, le torri furono abbandonate, e molte fortezze vennero cedute alla Chiesa, divenendo chiese come la Roccelletta propriamente detta (quella al bivio di Borgia, per capirci), o campanili come a Cardinale o alla Misericordia, o perdendo ogni funzione militare come a Montauro.

 Anche i cannoni si trovarono superati dall’evoluzione della tecnica, e vennero abbandonati. A Crotone, proprio sotto il Castello, c’erano, molti anni fa, degli strani ormeggi metallici murati; poi si scoprì che erano cannoni riutilizzati per più pacifico uso: oggi si ammirano nel Castello stesso. Chissà quanti altri finirono semplicemente fusi. Chissà se Soverato Vecchio, la Pietà, Sant’Anna di Montauro e altri luoghi fortificati avevano le loro artiglierie, e penso di sì.

 Alla battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, che sotto il manto della Madonna Ausiliatrice o della Vittoria o del Rosario, salvò l’Europa, parteciparono molti calabresi, e tra questi il barone di Badolato Gaspare Toraldo e il “Corsale” di Castelvetere che da anni conduceva una guerra sua contro i pirati.

 I Turchi, di fronte alla superiorità degli italospagnoli, deposero ogni velleità di conquista; ma ancora nel 1594 il rinnegato Scipione Cicala saccheggiò Reggio, Badolato, Soverato e il convento della Pietà; nel 1644 e l’anno dopo venne saccheggiata Stalettì.

 A proposito di cannoni e archibugi, infine, mi corre l’obbligo, ahimè poco elegante ma obbligo storiografico, di raccontarvi come ci si procurasse la polvere da sparo dal salnitro dello sterco dei maiali! Siccome la lingua, secondo la lezione del Vico, è lo specchio della storia, ecco perché una volta si diceva, in dialetto, “va sparati cu na palla e ‘mmerda, ca si non mori do corpu, mori da puzza”. Non era un’insolenza generica, bensì una reminiscenza di produzione zootecnico-artigianale di munizioni per l’artiglieria!

 Dovrei parlarvi dei cannoni della Seconda guerra mondiale e del sommergibile inglese colpito, ma lo sapete già.

Ulderico Nisticò

 

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