Cinema in Calabria. Anime nere tra analogie e differenze

animenere3La visione di “Anime nere” di Francesco Munzi ha suscitato in me un senso di profondo scoramento che mi ha accompagnato per tutta la serata. Vuoi per la storia, vuoi per la Calabria. Fortunatamente, lo stato emotivo è andato sfumando lasciando il posto a quello razionale e ho potuto mettere in ordine le mie idee sul film. A venirmi incontro è stato, neanche a farlo apposta, il ricordo dei miei cinque film realizzati in Calabria e nel confronto tra “Anime nere” e la mia modesta filmografia ho colto le analogie e le differenze. Da qui il titolo di questo mio intervento e le mie considerazioni sul film di Munzi.

Il tema del “ritorno in Calabria” presente nel film e che ruota intorno ai due fratelli, Rocco e Luigi, e poi al nipote Leo, mi ha suggerito le analogie. I due fratelli nel film di Munzi, dopo aver fatto i soldi con il traffico della droga e con l’edilizia, tornano in Calabria ad Africo perché si è riaperta una vecchia questione di sangue, l’assassinio del padre avvenuto anni addietro (titolo significativo del giornale dell’epoca: Assassinato un pastore d’Aspromonte – Lite per un riscatto). Così come i protagonisti del film “Anime nere”, anche i protagonisti dei miei film tornano in Calabria, ma per altre ragioni. Il tassista abusivo Nino immagina di tornare ricco dopo anni di emigrazione in Argentina, ma non trova più nulla di quello che aveva lasciato; il produttore cinematografico Angelo dopo il successo in Germania, torna per uno spot pubblicitario; Mario Bonelli dopo essere diventato un alto dirigente di un istituto di ricerca scientifica, torna per recuperare la sua coerenza morale e politica; il corpulento Vittorio Belardo torna per venderci i prodotti gastronomici della grande distribuzione alimentare riminese; la cantante Pina Calabrò dopo 35 anni di lontananza,  torna per un bisogno di radici e di autenticità. Insomma, per un motivo o per un altro, tutti tornano in Calabria e il cordone ombelicale con questa terra non si recide mai completamente. Fin qui le analogie, accomunati come dicevo dal grande tema del “ritorno”.

 Dove scattano le differenze? Scattano nelle motivazioni del ritorno. Infatti, a seconda del perché uno sceglie di tornare, “questo perché” ti introduce nell’esplorazione di uno tra i molteplici e diversi spaccati della Calabria. E’ evidente che se torni per portare sangue e droga, il paesaggio e le persone che incontri si colorano di morte, di nero e di gelida luce. E tutto deve essere funzionale a questo discorso di partenza: come la scenografia dei rustici in eterna costruzione e gli scheletri di case incompiute, o credenze residuali quali mescolare le gocce di tranquillanti con la cenere raccolta in chiesa o come il rito dello sgozzamento, insomma, tutto un mondo arcaico pastorale che viene alla ribalta e che si schiude davanti ai nostri occhi e a quelli dei distributori esteri. Insomma, si penetra in un contesto antropologico della Calabria primitiva che a quanto pare desta molti interessi. Se scegli, pertanto, di raccontare il ritorno per una vendetta di sangue devi mostrare le capre e i ruderi dei borghi di Africo Vecchio terremotato sulle pendici dell’Aspromonte.

 Ma torniamo ai nostri “eroi negativi”. Luigi e il nipote Leo “scendono” in Calabria per mettere le cose a posto. Rocco, contrario, resta a Milano. In Calabria vive un altro fratello, Luciano, personaggio “positivo” e padre di Leo, non avendo seguito per scelta le audaci imprese degli altri due. Sono dunque “eroi” rigorosamente maschi, visto che nel film le femmine oltre a ricevere regali e a recitare litanie, stanno lì solo a sopportare stoicamente degli uomini che delinquono, a parte Luciano. E mai un gesto fermo di rivolta. Alla resa dei conti, Luigi si fa subito ammazzare dal clan rivale. Rocco, giunto di corsa alla notizia della morte del fratello, attende e cerca di ragionare. Luciano è fragile e si aiuta come può con la cenere raccolta in chiesa e i tranquillanti. Leo, il nipote che avrebbe voluto entrare negli affari degli zii, non ne combina una giusta. Quando decide di prendere lui in mano la situazione, Leo si fa ammazzare dalla banda rivale in un modo che manifesta tutta la sua idiozia. Allora Luciano perde la testa e in un impeto di esasperazione, uccide il fratello Rocco (proprio Rocco che sin dall’inizio era contrario alla riapertura della faida!),  mettendo così, nelle sue intenzioni, la parola fine a uno psicodramma divenuto insostenibile. In questa scena a effetto avrebbe dovuto illuminarsi il significato ultimo del film.

Personalmente non ho trovato questo finale né rivoluzionario, né epico, né moderno, né scioccante, né provocatorio, né liberatorio, né simbolico ma semplicemente esagerato. Del resto, lo stesso regista Munzi riconosce qualche dubbio quando dichiara di aver discusso molto con i suoi collaboratori sul finale. Così come lo stesso regista romano ammette che era venuto in Calabria carico dei soliti pregiudizi. Insomma, un’annata nera per la cinematografia di ispirazione calabrese dopo “Il giudice meschino“ (RAI) di C. Carlei, “Le mani dentro la città” (MEDIASET) di A. Angelini e “Anime nere” di F. Munzi (cinema).

 Maurizio Paparazzo

 

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